Qualche
sera fa mi trovavo al cospetto di un aperitivo di compleanno. Uno di quegli
eventi dal nome inquietante e grottesco che gli esseri umani con un’agenda ben
fornita sono soliti chiamare “apericena” (Santi
numi! Esclameranno alcuni di voi; Gulp!
Esclameranno altri. In entrambi i casi, il vostro stupore-orrore rispetto a
questo termine ed alle sue implicazioni sociologiche risulterà quantomai
appropriato).
Il
tema dell’evento era “Sugar party anni '70”: dopo aver passato l’intera
settimana a googlare il lemma Sugar party,
nella speranza che Carla Gozzi apparisse in ologramma a darmi preziose
indicazioni sul dress code della
serata (ed essere arrivata al venerdì con le pive nel sacco), ho optato per un
vestito qualunque, avendo valutato che ragionevolmente avrei trascorso l’intera
festa coperta da un cappotto degli anni duemila. Cappotto dal discreto fascino,
peraltro, stile Corto Maltese, ma con un bottone del bavero misteriosamente
disperso qualche mese fa e mai più ripristinato (la mia tecnica consiste nel
procrastinare qualsiasi operazione di rammendo al grido di “Lo faccio il prossimo lunedì durante Lie to
me!” Poi però la puntata è sempre troppo delicata per essere interrotta da
una dedizione occasionale ad ago e filo. Voglio dire: come faccio a controllare
le espressioni facciali del sospettato se sono impegnata con una cruna?). Risolvo
il problema pagando il mio consueto tributo alle apparenze e opto per una
scelta di copertura (nel vero senso della parola) avvolgendo il collo in una
sciarpa finta glamour (cioè, era vera
glamour prima che la lavassi in lavatrice a 40 gradi al sicuro mantra di “E che potrà mai succedere, suvvia!”).
Arrivo.
Il locale è pieno, l’utenza fintamente variegata. Mi imbatto subito in un ex
giovane tornato recentemente single (parte di quel gruppo di figure non
mitologiche che io definisco “quelli del secondo giro”, cioè quelli che dopo quindici anni di matrimonio mi sono
separato e ho scoperto che mi ero perso un sacco di vita divertente e ora passo
la settimana da una festa all’altra e sono sempre in lista perché conosco i
proprietari dei locali più belli di Roma. Attenzione, amici. Questa
condizione non costituisce motivo di vanto: sarebbe bene avere l’età di quelli
che frequentano un locale, non di
quelli che lo possiedono).
Il
mio semi giovane Catone il Censore della movida romana, però, di una cosa è
certo: il nostro apericena è senza dubbio un happening pieno di bella
gente.
Non
ho potuto fare a meno di interrogarmi sul significato di questa fantomatica
bellezza e mi sono sentita subito un’outsider del gruppo (attenzione: non
un’outsider fichissima e geniale, di quelle super intellettuali appoggiate ad
un muro con aria stanca e piena di disgusto esistenziale, no. Io ero quel tipo
di outsider che ha i bottoni non rammendati e indossa intimo Oviesse in un
raduno di calze di Gallo).
Non
so se vi è mai capitato, in un luogo, di avere il phisique du role dello
sfigato (e di pensare che, quando Elio ha scritto Tapparella, stesse visualizzando proprio voi, in quello stesso
angolo e in quello stesso momento).
Dunque, avviso
ai naviganti: gli apericena sono quei luoghi in cui improvvisamente le vostre
battute esilaranti con l’imitazione dell’accento del Commissario Winchester dei
Simpsons non funzionano più (ma, parliamoci chiaro: quando mai hanno
funzionato?).
Lo confesso: queste riflessioni
hanno riaperto in me antiche ferite. L’amico-nemico Proust mi ha riportato con
violenza alla metà degli anni ‘90, quando le prime feste del liceo esigevano il
loro tributo di sangue in termini di dignità e rispetto.
Erano gli anni feroci e
discriminanti di “Non è la Rai”: la
moda imponeva vestitini di ciniglia attillati e rigorosamente sopra al
ginocchio, scolli con ruches svolazzanti e hot pants in velluto da portare su
calze trasparenti (trasparenti, ma destinate a non passare inosservate).
Io, più che il fisico
di Ambra Angiolini, mi ritrovavo quello di Gianni Boncompagni e
conseguentemente annaspavo in evidenti difficoltà di stile, decretando così la
mia certa estraneità dall’esclusivo club della Bella gente (versione minorenne-
anni novanta degli apericena di cui sopra).
Soltanto un paio di
anni dopo, Kurt Cobain e il suo salvifico grunge mi avrebbero dato
l’opportunità di indossare pantaloni informi e camicie da boscaiolo,
mascherando dietro il look del finto disprezzo i miei dieci chili di troppo.
Nirvana, non finirò mai di ringraziarvi per avermi concesso di avere dei capelli
strani, ma soprattutto di sembrare magra e di una intelligenza profonda allo
stesso tempo).
L’unico modo per ambire
ad entrare in questa massoneria adolescenziale era indossare una frangia fino
alle sopracciglia, fare finta di essere inappetente (con frasi da vera
principessa glamour del tipo: "io tolgo sempre il grasso dal prosciutto, perché
mi fa senso" –quando in realtà è stata sempre la vostra parte preferita) e
leggere CIOE’.
Con i miei capelli da
Maga Magò, tra l’altro, non potevo ambire né ai ricci di Ivonne Sciò né al
liscio perfetto di Alessia Merz.
In pratica mi sono
dovuta votare ad un’adolescenza metal rock perché l’ambiente underground era
l’unico che potesse conferire legittimità sociale alla mia testa crespa.
Non è mai stato vero
che preferivo mangiare senza pane o che la mia pizza preferita fosse la
semplice e raffinata margherita. Assolutamente no! Io amavo la quattro formaggi
o la funghi e salsiccia.
In una delle mie prime
feste (quelle in cui alle quattro di pomeriggio si sta con le tapparelle
abbassate per simulare galanti atmosfere da night club) cercai di introdurmi alla
buona società del mio liceo con un “abile” passo di danza. Non so se quella a
terra fosse Sprite (santo cielo, ho nominato la Sprite. Ma quanti secoli ho?) o
Coca Cola, fatto sta che scivolai rovinosamente a terra, al cospetto dello
stupore generale.
Riuscii ad alzarmi,
simulando una sicurezza sfrontata che ricordava tanto il tristissimo “ballo da
solo e me ne vanto”. Compresi con chiarezza che la strada della mia
inclusione sociale sarebbe stata ancora lunga e che certamente avrei dovuto
puntare su altri elementi (quando sono dimagrita di svariati chili e sono
diventata più alta di cinque centimetri, ormai era troppo tardi. La
frittata freudiana era fatta).
Mi specializzai in
intelligenza e personalità: se non potevo introdurvi alle feste più belle del
condominio, cari amici, vi avrei quantomeno introdotto all’interno del
provveditorato agli studi durante il periodo di autogestione, attaccando
interminabili sermoni su Nelson Mandela o sui Diari in Bolivia.
E così, la modalità “pagliaccio-leader”
mi garantì la stessa popolarità scolastica di un naso alla francese o di un
paio di gambe da danzatrice classica.
Praticamente tutto il
mio curriculum studiorum è stato un
bilanciamento del mio scarsissimo sex appeal. Mai e poi mai mi sarei dedicata
all’intelligenza se avessi avuto la bellezza, sia chiaro.
Oggi ormai ho realizzato che, in un certo -perverso- senso,
posso considerare Gianni Boncompagni come uno dei miei principali tutori culturali.
Come mi ha spinto lui agli studi –seppur indirettamente- nemmeno i miei
genitori.
Lo spumeggiante Branko
parla per noi amici della Bilancia di un buon quadro astrale natalizio. Chissà
se anche lui si è dato allo studio intensivo della sua disciplina per non dover più deglutire amarissima
aranciata.
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