martedì 4 dicembre 2012

La BELLA GENTE. Ovvero: gli esami e le dannate feste delle medie non finiscono mai.



Qualche sera fa mi trovavo al cospetto di un aperitivo di compleanno. Uno di quegli eventi dal nome inquietante e grottesco che gli esseri umani con un’agenda ben fornita sono soliti chiamare “apericena” (Santi numi! Esclameranno alcuni di voi; Gulp! Esclameranno altri. In entrambi i casi, il vostro stupore-orrore rispetto a questo termine ed alle sue implicazioni sociologiche risulterà quantomai appropriato).
Il tema dell’evento era “Sugar party anni '70”: dopo aver passato l’intera settimana a googlare il lemma Sugar party, nella speranza che Carla Gozzi apparisse in ologramma a darmi preziose indicazioni sul dress code della serata (ed essere arrivata al venerdì con le pive nel sacco), ho optato per un vestito qualunque, avendo valutato che ragionevolmente avrei trascorso l’intera festa coperta da un cappotto degli anni duemila. Cappotto dal discreto fascino, peraltro, stile Corto Maltese, ma con un bottone del bavero misteriosamente disperso qualche mese fa e mai più ripristinato (la mia tecnica consiste nel procrastinare qualsiasi operazione di rammendo al grido di “Lo faccio il prossimo lunedì durante Lie to me!” Poi però la puntata è sempre troppo delicata per essere interrotta da una dedizione occasionale ad ago e filo. Voglio dire: come faccio a controllare le espressioni facciali del sospettato se sono impegnata con una cruna?). Risolvo il problema pagando il mio consueto tributo alle apparenze e opto per una scelta di copertura (nel vero senso della parola) avvolgendo il collo in una sciarpa finta glamour (cioè, era vera glamour prima che la lavassi in lavatrice a 40 gradi al sicuro mantra di “E che potrà mai succedere, suvvia!”).
Arrivo. Il locale è pieno, l’utenza fintamente variegata. Mi imbatto subito in un ex giovane tornato recentemente single (parte di quel gruppo di figure non mitologiche che io definisco “quelli del secondo giro”, cioè quelli che dopo quindici anni di matrimonio mi sono separato e ho scoperto che mi ero perso un sacco di vita divertente e ora passo la settimana da una festa all’altra e sono sempre in lista perché conosco i proprietari dei locali più belli di Roma. Attenzione, amici. Questa condizione non costituisce motivo di vanto: sarebbe bene avere l’età di quelli che frequentano un locale, non di quelli che lo possiedono).
Il mio semi giovane Catone il Censore della movida romana, però, di una cosa è certo: il nostro apericena è senza dubbio un happening pieno di bella gente.
Non ho potuto fare a meno di interrogarmi sul significato di questa fantomatica bellezza e mi sono sentita subito un’outsider del gruppo (attenzione: non un’outsider fichissima e geniale, di quelle super intellettuali appoggiate ad un muro con aria stanca e piena di disgusto esistenziale, no. Io ero quel tipo di outsider che ha i bottoni non rammendati e indossa intimo Oviesse in un raduno di calze di Gallo).
Non so se vi è mai capitato, in un luogo, di avere il phisique du role dello sfigato (e di pensare che, quando Elio ha scritto Tapparella, stesse visualizzando proprio voi, in quello stesso angolo e in quello stesso momento).
Dunque, avviso ai naviganti: gli apericena sono quei luoghi in cui improvvisamente le vostre battute esilaranti con l’imitazione dell’accento del Commissario Winchester dei Simpsons non funzionano più (ma, parliamoci chiaro: quando mai hanno funzionato?).

Lo confesso: queste riflessioni hanno riaperto in me antiche ferite. L’amico-nemico Proust mi ha riportato con violenza alla metà degli anni ‘90, quando le prime feste del liceo esigevano il loro tributo di sangue in termini di dignità e rispetto.
Erano gli anni feroci e discriminanti di “Non è la Rai”: la moda imponeva vestitini di ciniglia attillati e rigorosamente sopra al ginocchio, scolli con ruches svolazzanti e hot pants in velluto da portare su calze trasparenti (trasparenti, ma destinate a non passare inosservate).
Io, più che il fisico di Ambra Angiolini, mi ritrovavo quello di Gianni Boncompagni e conseguentemente annaspavo in evidenti difficoltà di stile, decretando così la mia certa estraneità dall’esclusivo club della Bella gente (versione minorenne- anni novanta degli apericena di cui sopra).
Soltanto un paio di anni dopo, Kurt Cobain e il suo salvifico grunge mi avrebbero dato l’opportunità di indossare pantaloni informi e camicie da boscaiolo, mascherando dietro il look del finto disprezzo i miei dieci chili di troppo. Nirvana, non finirò mai di ringraziarvi per avermi concesso di avere dei capelli strani, ma soprattutto di sembrare magra e di una intelligenza profonda allo stesso tempo).
L’unico modo per ambire ad entrare in questa massoneria adolescenziale era indossare una frangia fino alle sopracciglia, fare finta di essere inappetente (con frasi da vera principessa glamour del tipo: "io tolgo sempre il grasso dal prosciutto, perché mi fa senso" –quando in realtà è stata sempre la vostra parte preferita) e leggere CIOE’.
Con i miei capelli da Maga Magò, tra l’altro, non potevo ambire né ai ricci di Ivonne Sciò né al liscio perfetto di Alessia Merz.
In pratica mi sono dovuta votare ad un’adolescenza metal rock perché l’ambiente underground era l’unico che potesse conferire legittimità sociale alla mia testa crespa.
Non è mai stato vero che preferivo mangiare senza pane o che la mia pizza preferita fosse la semplice e raffinata margherita. Assolutamente no! Io amavo la quattro formaggi o la funghi e salsiccia.
In una delle mie prime feste (quelle in cui alle quattro di pomeriggio si sta con le tapparelle abbassate per simulare galanti atmosfere da night club) cercai di introdurmi alla buona società del mio liceo con un “abile” passo di danza. Non so se quella a terra fosse Sprite (santo cielo, ho nominato la Sprite. Ma quanti secoli ho?) o Coca Cola, fatto sta che scivolai rovinosamente a terra, al cospetto dello stupore generale.
Riuscii ad alzarmi, simulando una sicurezza sfrontata che ricordava tanto il tristissimo “ballo da solo e me ne vanto”. Compresi con chiarezza che la strada della mia inclusione sociale sarebbe stata ancora lunga e che certamente avrei dovuto puntare su altri elementi (quando sono dimagrita di svariati chili e sono diventata più alta di cinque centimetri, ormai era troppo tardi. La frittata freudiana era fatta).
Mi specializzai in intelligenza e personalità: se non potevo introdurvi alle feste più belle del condominio, cari amici, vi avrei quantomeno introdotto all’interno del provveditorato agli studi durante il periodo di autogestione, attaccando interminabili sermoni su Nelson Mandela o sui Diari in Bolivia.
E così, la modalità “pagliaccio-leader” mi garantì la stessa popolarità scolastica di un naso alla francese o di un paio di gambe da danzatrice classica.
Praticamente tutto il mio curriculum studiorum è stato un bilanciamento del mio scarsissimo sex appeal. Mai e poi mai mi sarei dedicata all’intelligenza se avessi avuto la bellezza, sia chiaro. 
Oggi ormai ho realizzato che, in un certo -perverso- senso, posso considerare Gianni Boncompagni come uno dei miei principali tutori culturali. Come mi ha spinto lui agli studi –seppur indirettamente- nemmeno i miei genitori.


Lo spumeggiante Branko parla per noi amici della Bilancia di un buon quadro astrale natalizio. Chissà se anche lui si è dato allo studio intensivo della sua disciplina per non dover più deglutire amarissima aranciata.