venerdì 28 marzo 2014

La settimana in bianco. Storia di un insuccesso strepitoso.

All'inizio di marzo sono andata in Trentino con due amici che, compassionevolmente, mi hanno ospitato all'interno della loro vacanza familiare.
Chiariamo subito che non sono affatto una professionista da settimana bianca, anzi: ho visto la neve per la prima volta pochi anni fa, con lo stesso stupore e le stesse ossa doloranti di un contadino degli anni Cinquanta per la prima volta di fronte al mare.
Per amore, sulla soglia dei trent'anni, mi sono appassionata allo snowboard e ai lividi che esso comporta (e al compimento dei trentuno mi era già chiaro quanto la sciolina fosse un bene più durevole di un qualsiasi rapporto contemporaneo). Nonostante la debacle sentimentale, forte di questa consapevolezza, ho ripreso in mano tavola e scarponi, pronta ad affrontare con irragionevole imprudenza una nuova serie di esposizioni al pubblico ludibrio. Quello che non avevo calcolato e che non ricordavo, però, è che la settimana bianca non è affatto un'esperienza di sport all'aria aperta (retto è l'uomo che crede che lo sport possa essere un fine ultimo e non un bieco mezzo), bensì una severa passerella in cui il vostro stile atletico e di outfit saranno costantemente sottoposti a giudizio da gente molto più ricca e più esperta di voi, che osserva le vostre cadute di dignità dall'alto di seggiovie con sedili riscaldati (che a voi saranno precluse perchè dirette verso piste nere che non siete assolutamente capaci di fare).
E' come quando in adolescenza vi siete iscritti in palestra pensando che quella sala fosse un luogo deputato alla ginnastica e non alle relazioni interpersonali, scoprendo amaramente la vostra leggerezza nell'interpretazione il primo giorno di tapis-roulant, davanti allo specchio. Accanto a voi, infatti, correva baldanzoso (nonché capace di mantenere conversazioni lunghe e senza fiatone nonostante una velocità di 10 km/h) uno stupendo ragazzo in tenuta slim fit/dry fit/qualunque cosa fosse un minimo tecnica e fit, con capelli effetto bagnato, braccialetti giusti al polso e un'aria di finta noncuranza.
Sullo sfondo, come se non bastasse, una bellissima ragazza simil acqua e sapone modalità Kasia Smutniak (nota del redattore: una volta, poverissima me, in palestra mi sono ritrovata VERAMENTE vicino a Kasia Smutniak. Ovviamente, appena possibile, non ho rinnovato l'iscrizione).
Voi, invece, indossavate pantoloni grigi di una tuta anni 80 che avrebbe penalizzato anche Tyra Banks (quindi figuriamoci) e una di quelle magliette sformate che non sono state MAI slim fit, nemmeno appena uscite dalla fabbrica. Quelle magliette modello Fruit of the loom bianche con stampata sopra una vera e propria rassegna di antierotismo: dalla pubblicità della Salsamenteria Rossi & figli  a "Marcia della pace di Assisi 1995".
Ecco, sulla neve, due settimane fa, io indossavo il corrispettivo invernale di una sformata Fruit, con l'aggravante di numerosi strati e di protezioni varie e di un tutone blu che mi facevano sembrare un Ghostbuster dei poveri (senza zainetto con aspirapolvere a tubo, però). Un Ghostbuster appena uscito dalla marcia per la pace di Assisi, per darvi un'idea ancor più chiara della tragicità della faccenda.
Mi sono dovuta subito levare dalla testa qualsiasi velleità di conquista: nulla avrei potuto contro una vasta platea di concorrenti dagli accessori coordinati agli scarponi e dal perfetto shatush (il mio, grazie ai miei shampoo del discount, ha ora assunto le sembianze di un antico piatto paglia e fieno). Nessuno strumento contro la loro eleganza nelle piste e la loro abbronzatura gradevole: voglio dire, io ho senso dell'umorismo e sono una discreta battutista, ma, mentre ruzzolate rovinosamente fino a valle, ai bei ragazzi che vi osservano verrà in mente una balla di fieno e non certo David Letterman.
Per cui, a meno di non disporre di abbondanti iniezioni di bombardino capaci di stordire un San Bernardo, sapevo di non avere speranze.
Quello che ho ottenuto, in compenso, è stata un'abbronzatura a panda e dita gonfie da boscaiolo (senza imparare alcuna competenza da boscaiolo, peraltro).

Per il mese di aprile, il certamente sportivo Branko prevede che gli amici della Bilancia avranno il loro primaverile riscatto.  Suppongo che il primo passo verso la vittoria sia quello di fare il cambio di stagione e nascondere quella tuta ghostbuster.
















giovedì 20 giugno 2013

Gli assolutamente no



Se c’è un vantaggio nell’avere quasi trentacinque anni (oltre a quello di non essere più adolescenti, ovviamente), è certamente l’aver accumulato una serie di titaniche esperienze relazionali (no, non mi sto riferendo ai giganteschi personaggi esiodei, ma all’omonimo transatlantico e alla sua triste fine), grazie alle quali siamo in grado di stilare la lista dei nostri personalissimi Assolutamente no (per poi contravvenirvi ogni volta, naturalmente. Ma questa è un'altra storia).
Gli assolutamente no sono quelle pesanti consapevolezze derivanti da brucianti scottature degne della migliore piastra professionale. Sappiamo oggi che, per alcune questioni, siamo più intransigenti di una maestra elementare ottocentesca: non acconsentiremo mai più (da immaginarsi detto con la stessa gravità del corvo di Edgar Allan Poe, non un tono di meno, sia chiaro) a certi compromessi.
E, visto che ho sempre subito il discreto fascino delle liste di proscrizione, ne elencherò alcuni. 

Dunque, assolutamente no

- gli uomini che NON ritengono che il personaggio più geniale e divertente di South Park sia Gesù; 

- che usano i seguenti termini: criticità, territorio, problematica (senza mai avere alcuna soluzione effettiva per nessuno di questi elementi, tra l'altro);
 
- che ogni minuto devono farti capire che non sono gay (Variante 1: sì, vabbè, mi piace essere curato, ma mica sono gay, eh! / Variante 2: ho detto che lui mi piace, ma nel senso che lo stimo. Non ti fare idee strane, eh! / Variante 3: non so dirti se Brad Pitt è bello, io sono un uomo e non so giudicare. D’altronde mica sono gay). 
Che poi, voglio dire: se pure fosse bisessuale, a voi, che ve ne frega? Nel mondo c’è posto per tutti gli orientamenti;

- che sono innamorati di una qualsiasi delle Muse, antiche o contemporanee: quindi musicisti, attori, giornalisti. Ci sarà sempre una jam session, un living theatre, una notizia sensazionale che saprà allontanarli da voi in maniera più convincente di un pifferaio magico; 

- che sono innamorati di se stessi: anche nel momento più romantico della vostra relazione, magari al tramonto, sulla spiaggia, tenetevi pronti a fare spazio al loro ego. Che di solito si colloca proprio sul vostro stesso asciugamano -tra voi due- ed è il di lui prediletto;

- che usano il lemma “mia madre” più di due volte nella stessa conversazione;

- che pensano che il Toretta Style fosse da cretini e non hanno mai capito che cosa ci trovassero di fico quelli che ci andavano;

- che non perdono occasione di ricordare che hanno avuto cento fidanzate. Un galantuomo ha rinomatamente poca memoria. O quantomeno deve fingersi dimentico delle sue conquiste antecedenti a voi (perché, c’è stata qualcuna prima di voi?). Voi farete lo stesso e il buon gusto trionferà; 

- che vi raccontano delle peggiori angherie riservate ai loro flirt precedenti, per dare lustro a voi, di squallido rimando. Vedi: "Una volta ho fatto tornare UNA a casa in piena notte da sola. E c’era pure la neve". Il sottotesto è: ritieniti fortunata. Il sopratesto è: sei un cretino, e io, che sono qui a condividere i miei spazi con te, lo sono doppiamente.

Per l'inizio dell'estate, il saggio Branko sconsiglia di avventurarsi in relazioni durature. 
Questo significa che ho ancora qualche mese per contraddirmi,  prima di pentirmi e lamentarmi ancora. 
Ps: potrò fare gli stessi identici sbagli, ma giuro che quello di South Park non lo richiamo. 

domenica 2 giugno 2013

Buona società e odore di chiuso



Nel mio personale pantheon di divinità, vi è certamente la dea della procrastinazione e quella della superficialità, cui pago regolari tributi. Il futuro semplice è il mio verbo d’elezione e tutto ciò che finisce con una ò accentata mi si addice più del lutto ad Elettra: un giorno sbrinerò il frigo, pagherò il bollo auto e moto prima di ricevere minacce di morte dalla Regione Lazio e dai suoi pubblicani, farò il cambio di stagione in tempo utile per non dovermi vestire con le uniche due magliette buone sia per il caldo che per il freddo, comprerò il caffè prima di finirlo del tutto, vedendomi costretta a doverlo prendere al bar in semipigiama e cappotto, come una vecchia nobile decaduta.
Il top dei miei propositi disattesi, è, però, l’intendimento del mangerò alimenti sani per tutto l’anno così da non essere costretta a diventare testimonial dell’anoressia in prossimità della prova costume.
Per onorare questo impegno, di solito, mi autobeffo ogni volta con la pantomima dell’iscrizione in palestra, che io odio. Anche perchè, parliamoci chiaro: nessuno dei benefici di cui si ammanta la palestra è vero.
Solo per citarne alcuni: 1) Nuove amicizie. Assolutamente no. Nei miei anni di iscrizioni interrotte, ho sempre cercato di attaccare bottone con chiunque, salvo poi trovarmi vicino a persone che andavano effettivamente in palestra per allenarsi, invocando di conseguenza il mio silenzio. Giusto una volta sono riuscita a stringere una super amicizia sul tapis-roulant. Un ragazzo carinissimo e con il miglior tono muscolare di tutta la città. Solo qualche mese più tardi ho scoperto che la sua compagnia mi avrebbe portata dritta al Gay Village, più che ad un primo appuntamento.
NOTA: Altra preziosa lezione che ho imparato: attenzione amiche, se vedete un ragazzo meraviglioso, esperto negli esercizi alla panca e particolarmente allenato, vi dico che la possibilità che in quegli auricolari stia passando Lana del Rey o Rihanna è direttamente proporzionale alla visibilità del suo sixpack.
2) Relax e prezioso tempo per se stessi. Manco per niente. In quei corridoi al sapor di borsa dell’Adidas chiusa, il pensiero più ricorrente è sempre il chatwiniano “Che ci faccio qui?” con la personale aggiunta “mentre dovrei stare a: riordinare casa- fare la spesa- andare a trovare i miei amici-andare in posta prima che chiuda- comprare il regalo per il compleanno di chiunque (ho sempre qualcuno che festeggia) – semplicemente dormire?”. Insomma, il senso è quello di un tempo perduto, non in termini malinconici e proustiani, ma proprio di tempo buttato alle ortiche
Senza considerare che tutte le volte finisco per impelagarmi in situazioni socialmente insostenibili. Da quando ho letto sulla mia bibbia Cosmopolitan che per risparmiare è bene iscriversi in palestra nel mese di dicembre (quando, passati i buoni propositi settembrini, la gente se la dà a gambe e tende a non versare più alcuna quota), sono riuscita sempre a salire a buon mercato sul carro del vincitore. Ritrovandomi a pagare un abbonamento annuale a meno del prezzo del trimestrale del mio ricco vicino. Ora, quello che potrebbe sembrare come un riscatto sociale non indifferente, finisce per essere la mia rovina, specialmente quando conosco qualcuno che mi piace, di solito alla leg machine accanto alla mia. Questo ragazzo bello e impossibile (nonché etero, udite udite) è di solito un appartenente alla migliore upper middle class romana (sono pur sempre in una palestra in cui un iscritto non lettore di Cosmopolitan ha pagato più di mille euro per la propria iscrizione, non dimentichiamolo) e pensa che anche voi siate della stessa fatta. Mentre correte, vi parla di possibili comunanze giovanili: ricordate le feste di 18 anni in abito lungo, i cocktail al Circolo Canottieri, le serate in lista al Gilda, le settimane bianche, le estati all’Argentario, la prima fiammante macchina subito dopo la patente? 
...
No che non me lo ricordo. Le feste dei 18 anni dei miei amici si tenevano mediamente in fumose birrerie sulla Gianicolense (e indossavamo tutti camicie quadrettate da boscaiolo in ricordo del gran maestro Kurt Cobain), il Circolo Canottieri ho sempre pensato fosse un luogo paradigmatico, non un posto vero (tipo l'El Dorado), al Gilda una sola volta (celebre resta il mio tentativo di averci provato con lo sguardo con un ragazzo che pensavo ricambiasse, salvo scoprire che stava ammiccando ad una bellissima e benvestita dietro di me –poi dici perché ti metti ad ascoltare Elio per anni-), per la settimana bianca ho dovuto aspettare i primi stipendi (e la prima volta, davanti alla neve, lo stesso stupore di una contadina degli anni '50 che non aveva mai visto il mare), l’Argentario mi è ignoto, la mia prima macchina è stata una Panda rossa non fiammante del 1978. Capite, a questo punto, che reggere la conversazione diventa un’operazione delicatissima. E’ come quella puntata dei Simpson in cui Marge si imbatte in un affascinante Chanel rosa d’occasione. Lo sfoggia ad una festa chic e la sua eleganza le garantisce l’ingresso nella buona società. Ma, per mantenere lo status di eletta, deve parimenti mantenere costante il proprio livello di raffinatezza, condannandosi a passare le notti alla macchina da cucire, intenta nella trasformazione di quel vestito in mille altre modelli. 
Ecco. Voi, a differenza di Marge Simpson, avete solo un’iscrizione dallo sconto rimediato (lui non lo saprà mai) e una borsa con sopra qualche logo infelice. Che fare? 
Io di solito la butto in simpatia: la tattica dell'amicona vi consente di guadagnare tempo. Nelle settimane in cui lui sarà intento a capire se siete disponibili ad uscire o semplicemente siete spiritosissime (grazie amico del Gilda per avermi insegnato a puntare sulla battuta sagace prima ancora che su un naso alla francese), avrete tutto il tempo per rimediare un ottimo trattamento estetico su Groupon e per aspettare le migliori offerte di Zara (che potrete spacciare per acquisti non di Zara. L'ho provato, funziona).
Naturalmente la pantomima non può durare oltre il terzo appuntamento, perchè sarete prontamente scoperte. Ma in fondo, forse, tra un appassionante aneddoto di golf e l'altro, un quarto appuntamento non lo volete nemmeno voi. Giusto? Un minimo d'amor proprio, dannazione.

Il prezioso manuale di Branko (comprato orgogliosamente, questo sì, a prezzo pieno)  parla, per noi amici della Bilancia, di un periodo di stress fisico, accompagnato però da discrete conquiste in amore. 
L'allegoria con il tapis-roulant mi sembra evidente. 
Ok, l'amore intelligente e profondo della mia vita può attendere: corro da Zara.











martedì 4 dicembre 2012

La BELLA GENTE. Ovvero: gli esami e le dannate feste delle medie non finiscono mai.



Qualche sera fa mi trovavo al cospetto di un aperitivo di compleanno. Uno di quegli eventi dal nome inquietante e grottesco che gli esseri umani con un’agenda ben fornita sono soliti chiamare “apericena” (Santi numi! Esclameranno alcuni di voi; Gulp! Esclameranno altri. In entrambi i casi, il vostro stupore-orrore rispetto a questo termine ed alle sue implicazioni sociologiche risulterà quantomai appropriato).
Il tema dell’evento era “Sugar party anni '70”: dopo aver passato l’intera settimana a googlare il lemma Sugar party, nella speranza che Carla Gozzi apparisse in ologramma a darmi preziose indicazioni sul dress code della serata (ed essere arrivata al venerdì con le pive nel sacco), ho optato per un vestito qualunque, avendo valutato che ragionevolmente avrei trascorso l’intera festa coperta da un cappotto degli anni duemila. Cappotto dal discreto fascino, peraltro, stile Corto Maltese, ma con un bottone del bavero misteriosamente disperso qualche mese fa e mai più ripristinato (la mia tecnica consiste nel procrastinare qualsiasi operazione di rammendo al grido di “Lo faccio il prossimo lunedì durante Lie to me!” Poi però la puntata è sempre troppo delicata per essere interrotta da una dedizione occasionale ad ago e filo. Voglio dire: come faccio a controllare le espressioni facciali del sospettato se sono impegnata con una cruna?). Risolvo il problema pagando il mio consueto tributo alle apparenze e opto per una scelta di copertura (nel vero senso della parola) avvolgendo il collo in una sciarpa finta glamour (cioè, era vera glamour prima che la lavassi in lavatrice a 40 gradi al sicuro mantra di “E che potrà mai succedere, suvvia!”).
Arrivo. Il locale è pieno, l’utenza fintamente variegata. Mi imbatto subito in un ex giovane tornato recentemente single (parte di quel gruppo di figure non mitologiche che io definisco “quelli del secondo giro”, cioè quelli che dopo quindici anni di matrimonio mi sono separato e ho scoperto che mi ero perso un sacco di vita divertente e ora passo la settimana da una festa all’altra e sono sempre in lista perché conosco i proprietari dei locali più belli di Roma. Attenzione, amici. Questa condizione non costituisce motivo di vanto: sarebbe bene avere l’età di quelli che frequentano un locale, non di quelli che lo possiedono).
Il mio semi giovane Catone il Censore della movida romana, però, di una cosa è certo: il nostro apericena è senza dubbio un happening pieno di bella gente.
Non ho potuto fare a meno di interrogarmi sul significato di questa fantomatica bellezza e mi sono sentita subito un’outsider del gruppo (attenzione: non un’outsider fichissima e geniale, di quelle super intellettuali appoggiate ad un muro con aria stanca e piena di disgusto esistenziale, no. Io ero quel tipo di outsider che ha i bottoni non rammendati e indossa intimo Oviesse in un raduno di calze di Gallo).
Non so se vi è mai capitato, in un luogo, di avere il phisique du role dello sfigato (e di pensare che, quando Elio ha scritto Tapparella, stesse visualizzando proprio voi, in quello stesso angolo e in quello stesso momento).
Dunque, avviso ai naviganti: gli apericena sono quei luoghi in cui improvvisamente le vostre battute esilaranti con l’imitazione dell’accento del Commissario Winchester dei Simpsons non funzionano più (ma, parliamoci chiaro: quando mai hanno funzionato?).

Lo confesso: queste riflessioni hanno riaperto in me antiche ferite. L’amico-nemico Proust mi ha riportato con violenza alla metà degli anni ‘90, quando le prime feste del liceo esigevano il loro tributo di sangue in termini di dignità e rispetto.
Erano gli anni feroci e discriminanti di “Non è la Rai”: la moda imponeva vestitini di ciniglia attillati e rigorosamente sopra al ginocchio, scolli con ruches svolazzanti e hot pants in velluto da portare su calze trasparenti (trasparenti, ma destinate a non passare inosservate).
Io, più che il fisico di Ambra Angiolini, mi ritrovavo quello di Gianni Boncompagni e conseguentemente annaspavo in evidenti difficoltà di stile, decretando così la mia certa estraneità dall’esclusivo club della Bella gente (versione minorenne- anni novanta degli apericena di cui sopra).
Soltanto un paio di anni dopo, Kurt Cobain e il suo salvifico grunge mi avrebbero dato l’opportunità di indossare pantaloni informi e camicie da boscaiolo, mascherando dietro il look del finto disprezzo i miei dieci chili di troppo. Nirvana, non finirò mai di ringraziarvi per avermi concesso di avere dei capelli strani, ma soprattutto di sembrare magra e di una intelligenza profonda allo stesso tempo).
L’unico modo per ambire ad entrare in questa massoneria adolescenziale era indossare una frangia fino alle sopracciglia, fare finta di essere inappetente (con frasi da vera principessa glamour del tipo: "io tolgo sempre il grasso dal prosciutto, perché mi fa senso" –quando in realtà è stata sempre la vostra parte preferita) e leggere CIOE’.
Con i miei capelli da Maga Magò, tra l’altro, non potevo ambire né ai ricci di Ivonne Sciò né al liscio perfetto di Alessia Merz.
In pratica mi sono dovuta votare ad un’adolescenza metal rock perché l’ambiente underground era l’unico che potesse conferire legittimità sociale alla mia testa crespa.
Non è mai stato vero che preferivo mangiare senza pane o che la mia pizza preferita fosse la semplice e raffinata margherita. Assolutamente no! Io amavo la quattro formaggi o la funghi e salsiccia.
In una delle mie prime feste (quelle in cui alle quattro di pomeriggio si sta con le tapparelle abbassate per simulare galanti atmosfere da night club) cercai di introdurmi alla buona società del mio liceo con un “abile” passo di danza. Non so se quella a terra fosse Sprite (santo cielo, ho nominato la Sprite. Ma quanti secoli ho?) o Coca Cola, fatto sta che scivolai rovinosamente a terra, al cospetto dello stupore generale.
Riuscii ad alzarmi, simulando una sicurezza sfrontata che ricordava tanto il tristissimo “ballo da solo e me ne vanto”. Compresi con chiarezza che la strada della mia inclusione sociale sarebbe stata ancora lunga e che certamente avrei dovuto puntare su altri elementi (quando sono dimagrita di svariati chili e sono diventata più alta di cinque centimetri, ormai era troppo tardi. La frittata freudiana era fatta).
Mi specializzai in intelligenza e personalità: se non potevo introdurvi alle feste più belle del condominio, cari amici, vi avrei quantomeno introdotto all’interno del provveditorato agli studi durante il periodo di autogestione, attaccando interminabili sermoni su Nelson Mandela o sui Diari in Bolivia.
E così, la modalità “pagliaccio-leader” mi garantì la stessa popolarità scolastica di un naso alla francese o di un paio di gambe da danzatrice classica.
Praticamente tutto il mio curriculum studiorum è stato un bilanciamento del mio scarsissimo sex appeal. Mai e poi mai mi sarei dedicata all’intelligenza se avessi avuto la bellezza, sia chiaro. 
Oggi ormai ho realizzato che, in un certo -perverso- senso, posso considerare Gianni Boncompagni come uno dei miei principali tutori culturali. Come mi ha spinto lui agli studi –seppur indirettamente- nemmeno i miei genitori.


Lo spumeggiante Branko parla per noi amici della Bilancia di un buon quadro astrale natalizio. Chissà se anche lui si è dato allo studio intensivo della sua disciplina per non dover più deglutire amarissima aranciata.

domenica 25 novembre 2012

POVERACCIATE. Quando la dignità è in vacanza.



Il titolo di questo post affonda le sue radici storiche in una cena dai sapori acremente freudiani. 

Tor Pignattara, primi anni 2000. Reunion del CDA (versione extra- lusso, quella delle amiche del cuore), dopo mesi e mesi di una latitanza TUTTA MIA.
Appena entrata in casa, imperiosa scatta (senza alcuna speranza di garantismo) una severa raffica di domande che, per economia di scrittura, possono tutte riassumersi in un Ma perché diavolo sei sparita in tutti questi mesi? (annessa alla domanda l’occhiata peculiare di Carrie - Lo sguardo di Satana).
Scelgo di dichiararmi prigioniera politica e consegnarmi ai poteri forti in onore della verità: “Perché-mi-sono-frequentata-per-tutti-questi-mesi-con-uno-che-era-fidanzato-e-che-però-mi-aveva-giurato-che-era-solo-questione-di-tempo-e-poi-si-sarebbe-messo-per-sempre-solo-con-me-e-che-mi-trattava-anche-un-po’-male-ma-io-l’avrei-cambiato-e-non-ve-l’ho-voluto-dire-perché-già-sapevo-che-poi-voi-m’avreste-detto-che-ero-‘na poraccia”.
A quel punto dovreste aspettarvi un moto di commozione dalle vostre socie d’affetto, una levata di scudi quasi ottusa in vostra incontrastata difesa…
Invece mi è stato risposto “Hai fatto bene a non dirci niente Sare’, perché t’avremmo proprio detto che eri ‘na poraccia”.
Posto che le amiche sono sacre e ancor più sacre sono quelle che ti chiudono all’angolo e ti prendono a ceffoni se sei stata pessima, ho riflettuto profondamente sulle nostre ripetute omertà, specie quando siamo consapevoli di averla fatta grossa (primariamente contro noi stesse: sono questi i casi in cui scopriamo che le nostre alleate sanno difenderci molto meglio di quanto non sappiamo fare noi).
Quante volte avete abdicato a voi stesse, vendendo anima e dignità al diavolo pur di ottenere dimostrazione di apprezzamento dal vostro amato accompagnatore? Io, tante.
Badate bene, la parola chiave di questa definizione è il participio amato (e non amante), perché sui vostri sentimenti per lui siamo certe. È sulla possibilità che questo amore, oltre che ricevuto, sia anche esercitato attivamente, che ci sarebbe da discutere.
Avete presente quelli che vi fanno aspettare al freddo e al gelo, che disdicono gli appuntamenti all’ultimo, che non hanno la minima galanteria verso il prossimo? E avete presente voi che vi prestate a questo triste spettacolo, con una mancanza di personalità degna della migliore prima parte di Casa di bambola di Ibsen?
Quelli che vi tengono in sospeso anche solo per un drink (alle 18 ancora non sapete se la sera uscirete con lui o con i vostri gatti), oppure che lo disdicono all’ultimo; quelli che vabbè-ma-che-ti-sei-creduta, quelli che spariscono perché scusa-non-puoi-capire-quanto-ho-avuto-da-fare? Un festival dello squallore di cui siamo madrine consapevoli.
Ora, di questi malviventi del cuore noi conosciamo benissimo l’impostura, ma non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Soprattutto con le nostre amiche, che sono specchio delle nostre brame (leggi: se un giorno non siamo le più belle del reame, ce lo dicono e ci spiegano perché).
Comunque, un po’ per non riconoscerlo con voi stesse (perché una cosa detta ad alta voce assume inevitabilmente una sua dignità ontologica), un po’ perché avete (giustamente) paura dei cazziatoni pesanti di chi vi ama davvero, tacete la faccenda.
E poiché temiamo che le nostre anime gemelle ci mettano di fronte a tutta la nostra dabbenaggine, consegnandoci ad una spirale di disistima, mentiamo. Spudoratamente.
Così:
*“Non mi ha accompagnata a casa nel cuore della notte” diventa = mi andava di fare due passi e sono tornata per conto mio.
*Cercare di farsi invitare a tutti i costi ad una festa dove c’è la remota possibilità che lui partecipi diventa= probabilmente ci vedremo questo sabato.
*Scrivergli lunghissime email con Arisa di sottofondo (I-tunes vi segnala che nell’ultimo mese avete ascoltato L’amore è un’altra cosa ben 96 volte) mentre lui al massimo vi invia notifica di lettura diventa= tutto sommato siamo rimasti in buoni rapporti.
*Nella sua libreria il volume di maggior pregio è Storia critica del calcio italiano di Gianni Brera (volume cui va tutto il mio rispetto, purché non campeggi solitario in una libreria caecorum) diventa= Il fatto è che lui lavora tantissimo e non ha molto tempo per leggere.
*Richiamarlo con una scusa (lungamente cercata) dopo che avevate giurato tronfie che non lo avreste mai più sentito diventa = Che poi pensa che si era dimenticato una cosa a casa mia e mi è toccato pure avvisarlo! Guarda, giusto perché sono una signora.

In pratica, quelli che alle scuole medie sono “i piccoli problemi di cuore” che tanto cantava Cristina D’Avena, ora diventano veri e propri piccoli (piccoli?) problemi di dignità.

A questo punto, il mio appello è il seguente: Liberiamoci dalla dipendenza dagli addominali con il vuoto intorno, dal me-lo-tengo-stretto-a-tutti-i-costi-perché-tanto-uno-così-quando-mi-ricapita. Gli addominali li abbiamo tutti (se non sulla pancia, certamente nel cervello).
Lui è sposato, è anaffettivo, ha letto in vita soltanto il libretto della sua macchina, è un gradasso?
Per esperienza (sì, ho raccolto nel mio percorso di disistima ognuna di queste categorie. E oggi, per la stessa esperienza, posso dire con convinzione che l’eccesso di democrazia uccide lo Stato), mi sento di affermare che, se non è in grado di provare affetto, non imparerà oggi. La Candy Candy che alberga in ognuna di noi è fermamente convinta che l’amore possa trionfare, ma se lui è incapace di amare, lo è spesso per ragioni profonde. Oppure semplicemente perché è uno stronzo.
Alla seconda condizione non v’è rimedio alcuno. Alla prima, nemmeno. A meno che voi non disponiate di una Delorean e torniate indietro nel tempo, fino a quella prima infanzia in cui neanche il suo psicanalista è riuscito ad arrivare con l’ipnosi.
Sappiamo benissimo che tutte queste circostanze incresciose non faranno che alimentare il nostro DDA (deficit di autostima): nonostante ciò, procediamo imperterrite, sperando sia la volta buona di una redenzione.
Il saggio Guccini ci ha insegnato che uno dei più grandi peccati che possano commettersi è il creder speciale una storia normale.
In questa riflessione è condensata la ratio profonda di tutte le nostre poveracciate: dare sempre una seconda opportunità, in un atteggiamento misto di remissività indecorosa (non potrò mai meritarmi di meglio) ed arroganza dell’ultim’ora (io ti cambierò: hai fatto soffrire tutte, ma con me sarà diverso). Ok, no. Non sarà affatto diverso. È il contrario delle Beatitudini evangeliche: non c’è nessun ultimo che diventerà primo. Gli anaffettivi resteranno tali/ gli sposati non si separeranno mai (primariamente dalle proprie piccole abitudini, secondariamente dalle loro mogli)/ i carrieristi faranno carriera/ gli edipici continueranno a venerare le proprie madri/ i nerd ameranno i loro download più di voi stesse e dei vostri ciambelloni fatti in casa/ degli artisti continuerete ad essere continue spettatrici (anche una volta assurte allo status di fidanzate)/ quelli che non vi hanno mai chiesto “E tu?” continueranno a parlarsi addosso. Non v’è scampo.
Se c’è una cosa che ho imparato dal mio principale mentore, il dottor House, oltre che a diagnosticare il Lupus, è che l’intelligenza e l’autostima sono la più grande forma di fascino con cui ammaliare il prossimo (d’accordo, ci sarebbe il piccolo particolare della tossicodipendenza da Vicodin. Ma quale debolezza maschile non è affascinante per una donna?). Dunque mi impegno con questo documento scritto a non scadere nell’abdicazione, a non trascorrere il pomeriggio in luoghi in cui il cellulare abbia cento tacche (non sia mai lui avesse voglia di mandarmi una emoticon a cuore su whatsapp proprio mentre sono al cinema), a non rimanere compulsivamente online ovunque, per poter poi esclamare a lui (sorvegliato silenziosamente da ore), non appena si connette: “Dai, anche tu ti sei collegato in questo preciso istante?”.
Per la fine del mese, amici della bilancia, l’informatizzatissimo Branko ci parla di delicatezza di salute. Semmai dovessimo sentirci poco bene, speriamo non sia Lupus (ma comunque non è mai Lupus, tranquilli).