All'inizio di marzo sono andata in Trentino con due amici che, compassionevolmente, mi hanno ospitato all'interno della loro vacanza familiare.
Chiariamo subito che non sono affatto una professionista da settimana bianca, anzi: ho visto la neve per la prima volta pochi anni fa, con lo stesso stupore e le stesse ossa doloranti di un contadino degli anni Cinquanta per la prima volta di fronte al mare.
Per amore, sulla soglia dei trent'anni, mi sono appassionata allo snowboard e ai lividi che esso comporta (e al compimento dei trentuno mi era già chiaro quanto la sciolina fosse un bene più durevole di un qualsiasi rapporto contemporaneo). Nonostante la debacle sentimentale, forte di questa consapevolezza, ho ripreso in mano tavola e scarponi, pronta ad affrontare con irragionevole imprudenza una nuova serie di esposizioni al pubblico ludibrio. Quello che non avevo calcolato e che non ricordavo, però, è che la settimana bianca non è affatto un'esperienza di sport all'aria aperta (retto è l'uomo che crede che lo sport possa essere un fine ultimo e non un bieco mezzo), bensì una severa passerella in cui il vostro stile atletico e di outfit saranno costantemente sottoposti a giudizio da gente molto più ricca e più esperta di voi, che osserva le vostre cadute di dignità dall'alto di seggiovie con sedili riscaldati (che a voi saranno precluse perchè dirette verso piste nere che non siete assolutamente capaci di fare).
E' come quando in adolescenza vi siete iscritti in palestra pensando che quella sala fosse un luogo deputato alla ginnastica e non alle relazioni interpersonali, scoprendo amaramente la vostra leggerezza nell'interpretazione il primo giorno di tapis-roulant, davanti allo specchio. Accanto a voi, infatti, correva baldanzoso (nonché capace di mantenere conversazioni lunghe e senza fiatone nonostante una velocità di 10 km/h) uno stupendo ragazzo in tenuta slim fit/dry fit/qualunque cosa fosse un minimo tecnica e fit, con capelli effetto bagnato, braccialetti giusti al polso e un'aria di finta noncuranza.
Sullo sfondo, come se non bastasse, una bellissima ragazza simil acqua e sapone modalità Kasia Smutniak (nota del redattore: una volta, poverissima me, in palestra mi sono ritrovata VERAMENTE vicino a Kasia Smutniak. Ovviamente, appena possibile, non ho rinnovato l'iscrizione).
Voi, invece, indossavate pantoloni grigi di una tuta anni 80 che avrebbe penalizzato anche Tyra Banks (quindi figuriamoci) e una di quelle magliette sformate che non sono state MAI slim fit, nemmeno appena uscite dalla fabbrica. Quelle magliette modello Fruit of the loom bianche con stampata sopra una vera e propria rassegna di antierotismo: dalla pubblicità della Salsamenteria Rossi & figli a "Marcia della pace di Assisi 1995".
Ecco, sulla neve, due settimane fa, io indossavo il corrispettivo invernale di una sformata Fruit, con l'aggravante di numerosi strati e di protezioni varie e di un tutone blu che mi facevano sembrare un Ghostbuster dei poveri (senza zainetto con aspirapolvere a tubo, però). Un Ghostbuster appena uscito dalla marcia per la pace di Assisi, per darvi un'idea ancor più chiara della tragicità della faccenda.
Mi sono dovuta subito levare dalla testa qualsiasi velleità di conquista: nulla avrei potuto contro una vasta platea di concorrenti dagli accessori coordinati agli scarponi e dal perfetto shatush (il mio, grazie ai miei shampoo del discount, ha ora assunto le sembianze di un antico piatto paglia e fieno). Nessuno strumento contro la loro eleganza nelle piste e la loro abbronzatura gradevole: voglio dire, io ho senso dell'umorismo e sono una discreta battutista, ma, mentre ruzzolate rovinosamente fino a valle, ai bei ragazzi che vi osservano verrà in mente una balla di fieno e non certo David Letterman.
Per cui, a meno di non disporre di abbondanti iniezioni di bombardino capaci di stordire un San Bernardo, sapevo di non avere speranze.
Quello che ho ottenuto, in compenso, è stata un'abbronzatura a panda e dita gonfie da boscaiolo (senza imparare alcuna competenza da boscaiolo, peraltro).
Per il mese di aprile, il certamente sportivo Branko prevede che gli amici della Bilancia avranno il loro primaverile riscatto. Suppongo che il primo passo verso la vittoria sia quello di fare il cambio di stagione e nascondere quella tuta ghostbuster.
Realpolitik. Il cinismo mi seppellirà.
venerdì 28 marzo 2014
giovedì 20 giugno 2013
Gli assolutamente no
Se c’è un vantaggio
nell’avere quasi trentacinque anni (oltre a quello di non essere più
adolescenti, ovviamente), è certamente l’aver accumulato una serie di titaniche
esperienze relazionali (no, non mi sto riferendo ai giganteschi personaggi esiodei, ma all’omonimo transatlantico e alla sua triste fine), grazie alle
quali siamo in grado di stilare la lista dei nostri personalissimi Assolutamente
no (per poi contravvenirvi ogni volta, naturalmente. Ma questa è un'altra storia).
Gli assolutamente no sono quelle pesanti
consapevolezze derivanti da brucianti scottature degne della migliore piastra
professionale. Sappiamo oggi che, per alcune questioni, siamo più intransigenti
di una maestra elementare ottocentesca: non acconsentiremo mai più (da immaginarsi detto con la stessa gravità del corvo di
Edgar Allan Poe, non un tono di meno, sia chiaro) a certi compromessi.
E, visto che ho sempre subito il discreto fascino delle liste di proscrizione, ne elencherò alcuni.
Dunque, assolutamente no:
- gli
uomini che NON ritengono che il personaggio più geniale e divertente di South
Park sia Gesù;
- che usano i seguenti
termini: criticità, territorio, problematica (senza mai avere alcuna soluzione effettiva per nessuno di questi elementi, tra l'altro);
- che ogni minuto devono
farti capire che non sono gay (Variante 1: sì, vabbè, mi piace essere curato, ma mica sono
gay, eh! / Variante 2: ho detto che lui mi piace, ma nel senso che lo stimo. Non
ti fare idee strane, eh! / Variante 3: non so dirti se Brad Pitt è bello, io sono
un uomo e non so giudicare. D’altronde mica sono gay).
Che poi, voglio dire: se
pure fosse bisessuale, a voi, che ve ne frega? Nel mondo c’è posto per tutti
gli orientamenti;
- che sono innamorati di una qualsiasi delle Muse, antiche o contemporanee: quindi musicisti, attori, giornalisti. Ci sarà sempre una jam session, un living theatre, una notizia sensazionale che saprà allontanarli da voi in maniera più convincente di un pifferaio magico;
- che sono innamorati di
se stessi: anche nel momento più romantico
della vostra relazione, magari al tramonto, sulla spiaggia, tenetevi pronti a
fare spazio al loro ego. Che di solito si colloca proprio sul vostro stesso asciugamano -tra voi due- ed è il di lui
prediletto;
- che usano il lemma “mia
madre” più di due volte nella stessa conversazione;
- che pensano che il
Toretta Style fosse da cretini e non hanno mai capito che cosa ci trovassero di
fico quelli che ci andavano;
- che non perdono occasione di ricordare che hanno avuto
cento fidanzate. Un galantuomo ha rinomatamente poca memoria. O quantomeno deve
fingersi dimentico delle sue conquiste antecedenti a voi (perché, c’è stata
qualcuna prima di voi?). Voi farete lo stesso e il buon gusto trionferà;
Per l'inizio dell'estate, il saggio Branko sconsiglia di avventurarsi in relazioni durature.
Questo significa che ho ancora qualche mese per contraddirmi, prima di pentirmi e lamentarmi ancora.
Ps: potrò fare gli stessi identici sbagli, ma giuro che quello di South Park non lo richiamo.
domenica 2 giugno 2013
Buona società e odore di chiuso
Nel mio personale
pantheon di divinità, vi è certamente la dea della procrastinazione e quella
della superficialità, cui pago regolari tributi. Il futuro semplice è il mio
verbo d’elezione e tutto ciò che finisce con una ò accentata mi si addice più
del lutto ad Elettra: un giorno sbrinerò
il frigo, pagherò il bollo auto e
moto prima di ricevere minacce di morte dalla Regione Lazio e dai suoi
pubblicani, farò il cambio di
stagione in tempo utile per non dovermi vestire con le uniche due magliette
buone sia per il caldo che per il freddo, comprerò il caffè prima di finirlo del tutto, vedendomi costretta a
doverlo prendere al bar in semipigiama e cappotto, come una vecchia nobile
decaduta.
Il top dei miei
propositi disattesi, è, però, l’intendimento del mangerò alimenti sani per tutto l’anno così da non essere costretta
a diventare testimonial dell’anoressia in prossimità della prova costume.
Per onorare questo
impegno, di solito, mi autobeffo ogni volta con la pantomima dell’iscrizione in
palestra, che io odio. Anche perchè, parliamoci chiaro: nessuno dei benefici di
cui si ammanta la palestra è vero.
Solo per citarne
alcuni: 1) Nuove amicizie.
Assolutamente no. Nei miei anni di iscrizioni interrotte, ho sempre cercato di
attaccare bottone con chiunque, salvo poi trovarmi vicino a persone che andavano
effettivamente in palestra per allenarsi, invocando di conseguenza il mio
silenzio. Giusto una volta sono riuscita a stringere una super amicizia sul tapis-roulant. Un ragazzo carinissimo e
con il miglior tono muscolare di tutta la città. Solo qualche mese più tardi ho
scoperto che la sua compagnia mi avrebbe portata dritta al Gay Village, più che
ad un primo appuntamento.
NOTA: Altra preziosa lezione che ho imparato:
attenzione amiche, se vedete un ragazzo meraviglioso, esperto negli esercizi
alla panca e particolarmente allenato, vi dico che la possibilità che in quegli
auricolari stia passando Lana del Rey o Rihanna è direttamente
proporzionale alla visibilità del suo sixpack.
2) Relax e prezioso tempo per se stessi. Manco per niente. In quei
corridoi al sapor di borsa dell’Adidas chiusa, il pensiero più ricorrente è
sempre il chatwiniano “Che ci faccio qui?” con la personale aggiunta “mentre
dovrei stare a: riordinare casa- fare la spesa- andare a trovare i miei amici-andare
in posta prima che chiuda- comprare il regalo per il compleanno di chiunque (ho
sempre qualcuno che festeggia) – semplicemente dormire?”. Insomma, il senso è
quello di un tempo perduto, non in termini malinconici e proustiani, ma proprio
di tempo buttato alle ortiche
Senza considerare che
tutte le volte finisco per impelagarmi in situazioni socialmente insostenibili.
Da quando ho letto sulla mia bibbia Cosmopolitan che per risparmiare è bene
iscriversi in palestra nel mese di dicembre (quando, passati i buoni propositi
settembrini, la gente se la dà a gambe e tende a non versare più alcuna quota),
sono riuscita sempre a salire a buon mercato sul carro del vincitore.
Ritrovandomi a pagare un abbonamento annuale a meno del prezzo del trimestrale del mio
ricco vicino. Ora, quello che potrebbe sembrare come un riscatto sociale non
indifferente, finisce per essere la mia rovina, specialmente quando conosco
qualcuno che mi piace, di solito alla leg machine accanto alla mia. Questo
ragazzo bello e impossibile (nonché etero, udite udite) è di solito un
appartenente alla migliore upper middle
class romana (sono pur sempre in una palestra in cui un iscritto non
lettore di Cosmopolitan ha pagato più di mille euro per la propria iscrizione,
non dimentichiamolo) e pensa che anche voi siate della stessa fatta. Mentre
correte, vi parla di possibili comunanze giovanili: ricordate le feste di 18
anni in abito lungo, i cocktail al Circolo Canottieri, le serate in lista al
Gilda, le settimane bianche, le estati all’Argentario, la prima fiammante
macchina subito dopo la patente?
...
No che non me lo ricordo. Le feste dei 18 anni
dei miei amici si tenevano mediamente in fumose birrerie sulla Gianicolense (e
indossavamo tutti camicie quadrettate da boscaiolo in ricordo del gran maestro
Kurt Cobain), il Circolo Canottieri ho sempre pensato fosse un luogo
paradigmatico, non un posto vero (tipo l'El Dorado), al
Gilda una sola volta (celebre resta il mio tentativo di averci provato con lo
sguardo con un ragazzo che pensavo ricambiasse, salvo scoprire che stava
ammiccando ad una bellissima e benvestita dietro di me –poi dici perché ti
metti ad ascoltare Elio per anni-), per la settimana bianca ho dovuto aspettare
i primi stipendi (e la prima volta, davanti alla neve, lo stesso stupore di
una contadina degli anni '50 che non aveva mai visto il mare), l’Argentario mi è
ignoto, la mia prima macchina è stata una Panda rossa non fiammante del 1978.
Capite, a questo punto, che reggere la conversazione diventa un’operazione
delicatissima. E’ come quella puntata dei Simpson in cui Marge si imbatte in un
affascinante Chanel rosa d’occasione. Lo sfoggia ad una festa chic e la sua
eleganza le garantisce l’ingresso nella buona società. Ma, per mantenere lo
status di eletta, deve parimenti mantenere costante il proprio livello di
raffinatezza, condannandosi a passare le notti alla macchina da cucire, intenta
nella trasformazione di quel vestito in mille altre modelli.
Ecco. Voi, a
differenza di Marge Simpson, avete solo un’iscrizione dallo sconto rimediato
(lui non lo saprà mai) e una borsa con sopra qualche logo infelice. Che fare?
Io di solito la butto in simpatia: la tattica dell'amicona vi consente di guadagnare tempo. Nelle settimane in cui lui sarà intento a capire se siete disponibili ad uscire o semplicemente siete spiritosissime (grazie amico del Gilda per avermi insegnato a puntare sulla battuta sagace prima ancora che su un naso alla francese), avrete tutto il tempo per rimediare un ottimo trattamento estetico su Groupon e per aspettare le migliori offerte di Zara (che potrete spacciare per acquisti non di Zara. L'ho provato, funziona).
Naturalmente la pantomima non può durare oltre il terzo appuntamento, perchè sarete prontamente scoperte. Ma in fondo, forse, tra un appassionante aneddoto di golf e l'altro, un quarto appuntamento non lo volete nemmeno voi. Giusto? Un minimo d'amor proprio, dannazione.
Il prezioso manuale di Branko (comprato orgogliosamente, questo sì, a prezzo pieno) parla, per noi amici della Bilancia, di un periodo di stress fisico, accompagnato però da discrete conquiste in amore.
L'allegoria con il tapis-roulant mi sembra evidente.
Ok, l'amore intelligente e profondo della mia vita può attendere: corro da Zara.
martedì 4 dicembre 2012
La BELLA GENTE. Ovvero: gli esami e le dannate feste delle medie non finiscono mai.
Qualche
sera fa mi trovavo al cospetto di un aperitivo di compleanno. Uno di quegli
eventi dal nome inquietante e grottesco che gli esseri umani con un’agenda ben
fornita sono soliti chiamare “apericena” (Santi
numi! Esclameranno alcuni di voi; Gulp!
Esclameranno altri. In entrambi i casi, il vostro stupore-orrore rispetto a
questo termine ed alle sue implicazioni sociologiche risulterà quantomai
appropriato).
Il
tema dell’evento era “Sugar party anni '70”: dopo aver passato l’intera
settimana a googlare il lemma Sugar party,
nella speranza che Carla Gozzi apparisse in ologramma a darmi preziose
indicazioni sul dress code della
serata (ed essere arrivata al venerdì con le pive nel sacco), ho optato per un
vestito qualunque, avendo valutato che ragionevolmente avrei trascorso l’intera
festa coperta da un cappotto degli anni duemila. Cappotto dal discreto fascino,
peraltro, stile Corto Maltese, ma con un bottone del bavero misteriosamente
disperso qualche mese fa e mai più ripristinato (la mia tecnica consiste nel
procrastinare qualsiasi operazione di rammendo al grido di “Lo faccio il prossimo lunedì durante Lie to
me!” Poi però la puntata è sempre troppo delicata per essere interrotta da
una dedizione occasionale ad ago e filo. Voglio dire: come faccio a controllare
le espressioni facciali del sospettato se sono impegnata con una cruna?). Risolvo
il problema pagando il mio consueto tributo alle apparenze e opto per una
scelta di copertura (nel vero senso della parola) avvolgendo il collo in una
sciarpa finta glamour (cioè, era vera
glamour prima che la lavassi in lavatrice a 40 gradi al sicuro mantra di “E che potrà mai succedere, suvvia!”).
Arrivo.
Il locale è pieno, l’utenza fintamente variegata. Mi imbatto subito in un ex
giovane tornato recentemente single (parte di quel gruppo di figure non
mitologiche che io definisco “quelli del secondo giro”, cioè quelli che dopo quindici anni di matrimonio mi sono
separato e ho scoperto che mi ero perso un sacco di vita divertente e ora passo
la settimana da una festa all’altra e sono sempre in lista perché conosco i
proprietari dei locali più belli di Roma. Attenzione, amici. Questa
condizione non costituisce motivo di vanto: sarebbe bene avere l’età di quelli
che frequentano un locale, non di
quelli che lo possiedono).
Il
mio semi giovane Catone il Censore della movida romana, però, di una cosa è
certo: il nostro apericena è senza dubbio un happening pieno di bella
gente.
Non
ho potuto fare a meno di interrogarmi sul significato di questa fantomatica
bellezza e mi sono sentita subito un’outsider del gruppo (attenzione: non
un’outsider fichissima e geniale, di quelle super intellettuali appoggiate ad
un muro con aria stanca e piena di disgusto esistenziale, no. Io ero quel tipo
di outsider che ha i bottoni non rammendati e indossa intimo Oviesse in un
raduno di calze di Gallo).
Non
so se vi è mai capitato, in un luogo, di avere il phisique du role dello
sfigato (e di pensare che, quando Elio ha scritto Tapparella, stesse visualizzando proprio voi, in quello stesso
angolo e in quello stesso momento).
Dunque, avviso
ai naviganti: gli apericena sono quei luoghi in cui improvvisamente le vostre
battute esilaranti con l’imitazione dell’accento del Commissario Winchester dei
Simpsons non funzionano più (ma, parliamoci chiaro: quando mai hanno
funzionato?).
Lo confesso: queste riflessioni
hanno riaperto in me antiche ferite. L’amico-nemico Proust mi ha riportato con
violenza alla metà degli anni ‘90, quando le prime feste del liceo esigevano il
loro tributo di sangue in termini di dignità e rispetto.
Erano gli anni feroci e
discriminanti di “Non è la Rai”: la
moda imponeva vestitini di ciniglia attillati e rigorosamente sopra al
ginocchio, scolli con ruches svolazzanti e hot pants in velluto da portare su
calze trasparenti (trasparenti, ma destinate a non passare inosservate).
Io, più che il fisico
di Ambra Angiolini, mi ritrovavo quello di Gianni Boncompagni e
conseguentemente annaspavo in evidenti difficoltà di stile, decretando così la
mia certa estraneità dall’esclusivo club della Bella gente (versione minorenne-
anni novanta degli apericena di cui sopra).
Soltanto un paio di
anni dopo, Kurt Cobain e il suo salvifico grunge mi avrebbero dato
l’opportunità di indossare pantaloni informi e camicie da boscaiolo,
mascherando dietro il look del finto disprezzo i miei dieci chili di troppo.
Nirvana, non finirò mai di ringraziarvi per avermi concesso di avere dei capelli
strani, ma soprattutto di sembrare magra e di una intelligenza profonda allo
stesso tempo).
L’unico modo per ambire
ad entrare in questa massoneria adolescenziale era indossare una frangia fino
alle sopracciglia, fare finta di essere inappetente (con frasi da vera
principessa glamour del tipo: "io tolgo sempre il grasso dal prosciutto, perché
mi fa senso" –quando in realtà è stata sempre la vostra parte preferita) e
leggere CIOE’.
Con i miei capelli da
Maga Magò, tra l’altro, non potevo ambire né ai ricci di Ivonne Sciò né al
liscio perfetto di Alessia Merz.
In pratica mi sono
dovuta votare ad un’adolescenza metal rock perché l’ambiente underground era
l’unico che potesse conferire legittimità sociale alla mia testa crespa.
Non è mai stato vero
che preferivo mangiare senza pane o che la mia pizza preferita fosse la
semplice e raffinata margherita. Assolutamente no! Io amavo la quattro formaggi
o la funghi e salsiccia.
In una delle mie prime
feste (quelle in cui alle quattro di pomeriggio si sta con le tapparelle
abbassate per simulare galanti atmosfere da night club) cercai di introdurmi alla
buona società del mio liceo con un “abile” passo di danza. Non so se quella a
terra fosse Sprite (santo cielo, ho nominato la Sprite. Ma quanti secoli ho?) o
Coca Cola, fatto sta che scivolai rovinosamente a terra, al cospetto dello
stupore generale.
Riuscii ad alzarmi,
simulando una sicurezza sfrontata che ricordava tanto il tristissimo “ballo da
solo e me ne vanto”. Compresi con chiarezza che la strada della mia
inclusione sociale sarebbe stata ancora lunga e che certamente avrei dovuto
puntare su altri elementi (quando sono dimagrita di svariati chili e sono
diventata più alta di cinque centimetri, ormai era troppo tardi. La
frittata freudiana era fatta).
Mi specializzai in
intelligenza e personalità: se non potevo introdurvi alle feste più belle del
condominio, cari amici, vi avrei quantomeno introdotto all’interno del
provveditorato agli studi durante il periodo di autogestione, attaccando
interminabili sermoni su Nelson Mandela o sui Diari in Bolivia.
E così, la modalità “pagliaccio-leader”
mi garantì la stessa popolarità scolastica di un naso alla francese o di un
paio di gambe da danzatrice classica.
Praticamente tutto il
mio curriculum studiorum è stato un
bilanciamento del mio scarsissimo sex appeal. Mai e poi mai mi sarei dedicata
all’intelligenza se avessi avuto la bellezza, sia chiaro.
Oggi ormai ho realizzato che, in un certo -perverso- senso,
posso considerare Gianni Boncompagni come uno dei miei principali tutori culturali.
Come mi ha spinto lui agli studi –seppur indirettamente- nemmeno i miei
genitori.
Lo spumeggiante Branko
parla per noi amici della Bilancia di un buon quadro astrale natalizio. Chissà
se anche lui si è dato allo studio intensivo della sua disciplina per non dover più deglutire amarissima
aranciata.
domenica 25 novembre 2012
POVERACCIATE. Quando la dignità è in vacanza.
Il titolo di questo
post affonda le sue radici storiche in una cena dai sapori acremente freudiani.
Tor Pignattara, primi
anni 2000. Reunion del CDA (versione extra- lusso, quella delle amiche del
cuore), dopo mesi e mesi di una latitanza TUTTA MIA.
Appena entrata in casa,
imperiosa scatta (senza alcuna speranza di garantismo) una severa raffica di
domande che, per economia di scrittura, possono tutte riassumersi in un Ma perché diavolo sei sparita in tutti
questi mesi? (annessa alla domanda l’occhiata peculiare di Carrie - Lo sguardo di Satana).
Scelgo di dichiararmi
prigioniera politica e consegnarmi ai poteri forti in onore della verità:
“Perché-mi-sono-frequentata-per-tutti-questi-mesi-con-uno-che-era-fidanzato-e-che-però-mi-aveva-giurato-che-era-solo-questione-di-tempo-e-poi-si-sarebbe-messo-per-sempre-solo-con-me-e-che-mi-trattava-anche-un-po’-male-ma-io-l’avrei-cambiato-e-non-ve-l’ho-voluto-dire-perché-già-sapevo-che-poi-voi-m’avreste-detto-che-ero-‘na poraccia”.
A quel punto dovreste
aspettarvi un moto di commozione dalle vostre socie d’affetto, una levata di
scudi quasi ottusa in vostra incontrastata difesa…
Invece mi è stato
risposto “Hai fatto bene a non dirci
niente Sare’, perché t’avremmo proprio detto che eri ‘na poraccia”.
Posto che le amiche
sono sacre e ancor più sacre sono quelle che ti chiudono all’angolo e ti
prendono a ceffoni se sei stata pessima, ho riflettuto profondamente sulle
nostre ripetute omertà, specie quando siamo consapevoli di averla fatta grossa (primariamente
contro noi stesse: sono questi i casi in cui scopriamo che le nostre alleate
sanno difenderci molto meglio di quanto non sappiamo fare noi).
Quante volte avete
abdicato a voi stesse, vendendo anima e dignità al diavolo pur di ottenere
dimostrazione di apprezzamento dal vostro amato accompagnatore? Io, tante.
Badate bene, la parola
chiave di questa definizione è il participio amato (e non amante), perché
sui vostri sentimenti per lui siamo certe. È sulla possibilità che questo
amore, oltre che ricevuto, sia anche esercitato attivamente, che ci sarebbe da
discutere.
Avete presente quelli
che vi fanno aspettare al freddo e al gelo, che disdicono gli appuntamenti
all’ultimo, che non hanno la minima galanteria verso il prossimo? E avete
presente voi che vi prestate a questo triste spettacolo, con una mancanza di
personalità degna della migliore prima parte di Casa di bambola di Ibsen?
Quelli che vi tengono
in sospeso anche solo per un drink (alle 18 ancora non sapete se la sera uscirete
con lui o con i vostri gatti), oppure che lo disdicono all’ultimo; quelli che vabbè-ma-che-ti-sei-creduta,
quelli che spariscono perché scusa-non-puoi-capire-quanto-ho-avuto-da-fare? Un
festival dello squallore di cui siamo madrine consapevoli.
Ora, di questi
malviventi del cuore noi conosciamo benissimo l’impostura, ma non abbiamo il
coraggio di ammetterlo. Soprattutto con le nostre amiche, che sono specchio
delle nostre brame (leggi: se un giorno non siamo le più belle del reame, ce lo
dicono e ci spiegano perché).
Comunque, un po’ per non
riconoscerlo con voi stesse (perché una cosa detta ad alta voce assume
inevitabilmente una sua dignità ontologica), un po’ perché avete (giustamente)
paura dei cazziatoni pesanti di chi vi ama davvero, tacete la faccenda.
E poiché temiamo che le
nostre anime gemelle ci mettano di fronte a tutta la nostra dabbenaggine,
consegnandoci ad una spirale di disistima, mentiamo. Spudoratamente.
Così:
*“Non mi ha
accompagnata a casa nel cuore della notte” diventa = mi andava di fare due passi e sono tornata per conto mio.
*Cercare di farsi
invitare a tutti i costi ad una festa dove c’è la remota possibilità che lui
partecipi diventa= probabilmente ci
vedremo questo sabato.
*Scrivergli lunghissime
email con Arisa di sottofondo (I-tunes vi segnala che nell’ultimo mese avete
ascoltato L’amore è un’altra cosa ben
96 volte) mentre lui al massimo vi invia notifica di lettura diventa= tutto sommato siamo rimasti in buoni
rapporti.
*Nella sua libreria il
volume di maggior pregio è Storia critica
del calcio italiano di Gianni Brera (volume cui va tutto il mio rispetto,
purché non campeggi solitario in una libreria caecorum) diventa= Il fatto è che lui lavora tantissimo e non
ha molto tempo per leggere.
*Richiamarlo con una
scusa (lungamente cercata) dopo che avevate giurato tronfie che non lo avreste
mai più sentito diventa = Che poi pensa che
si era dimenticato una cosa a casa mia e mi è toccato pure avvisarlo! Guarda,
giusto perché sono una signora.
In pratica, quelli che
alle scuole medie sono “i piccoli problemi di cuore” che tanto cantava Cristina
D’Avena, ora diventano veri e propri piccoli (piccoli?) problemi di dignità.
A questo punto, il mio appello è il seguente: Liberiamoci dalla
dipendenza dagli addominali con il vuoto intorno, dal me-lo-tengo-stretto-a-tutti-i-costi-perché-tanto-uno-così-quando-mi-ricapita.
Gli addominali li abbiamo tutti (se non sulla pancia, certamente nel cervello).
Lui è sposato, è
anaffettivo, ha letto in vita soltanto il libretto della sua macchina, è un
gradasso?
Per esperienza (sì, ho
raccolto nel mio percorso di disistima ognuna di queste categorie. E oggi, per la
stessa esperienza, posso dire con convinzione che l’eccesso di democrazia
uccide lo Stato), mi sento di affermare che, se non è in grado di
provare affetto, non imparerà oggi. La Candy Candy che alberga in ognuna di noi
è fermamente convinta che l’amore possa trionfare, ma se lui è incapace di
amare, lo è spesso per ragioni profonde. Oppure semplicemente perché è uno
stronzo.
Alla seconda condizione
non v’è rimedio alcuno. Alla prima, nemmeno. A meno che voi non disponiate di
una Delorean e torniate indietro nel tempo, fino a quella prima infanzia in cui
neanche il suo psicanalista è riuscito ad arrivare con l’ipnosi.
Sappiamo benissimo che tutte
queste circostanze incresciose non faranno che alimentare il nostro DDA
(deficit di autostima): nonostante ciò, procediamo imperterrite, sperando sia
la volta buona di una redenzione.
Il saggio Guccini ci ha
insegnato che uno dei più grandi peccati che possano commettersi è il creder
speciale una storia normale.
In questa riflessione è
condensata la ratio profonda di tutte
le nostre poveracciate: dare sempre una seconda opportunità, in un
atteggiamento misto di remissività indecorosa (non potrò mai meritarmi di
meglio) ed arroganza dell’ultim’ora (io ti cambierò: hai fatto soffrire tutte,
ma con me sarà diverso). Ok, no. Non sarà affatto diverso. È il contrario delle
Beatitudini evangeliche: non c’è nessun ultimo che diventerà primo. Gli anaffettivi
resteranno tali/ gli sposati non si separeranno mai (primariamente dalle
proprie piccole abitudini, secondariamente dalle loro mogli)/ i carrieristi
faranno carriera/ gli edipici continueranno a venerare le proprie madri/ i nerd
ameranno i loro download più di voi stesse e dei vostri ciambelloni fatti in
casa/ degli artisti continuerete ad essere continue spettatrici (anche una
volta assurte allo status di
fidanzate)/ quelli che non vi hanno mai chiesto “E tu?” continueranno a parlarsi
addosso. Non v’è scampo.
Se c’è una cosa che ho
imparato dal mio principale mentore, il dottor House, oltre che a diagnosticare
il Lupus, è che l’intelligenza e l’autostima sono la più grande forma di fascino
con cui ammaliare il prossimo (d’accordo, ci sarebbe il piccolo particolare
della tossicodipendenza da Vicodin. Ma quale debolezza maschile non è
affascinante per una donna?). Dunque mi impegno con questo documento scritto a
non scadere nell’abdicazione, a non trascorrere il pomeriggio in luoghi in cui
il cellulare abbia cento tacche (non sia mai lui avesse voglia di mandarmi una
emoticon a cuore su whatsapp proprio mentre sono al cinema), a non rimanere
compulsivamente online ovunque, per
poter poi esclamare a lui (sorvegliato silenziosamente da ore), non appena si connette:
“Dai, anche tu ti sei collegato in
questo preciso istante?”.
Per la fine del mese, amici
della bilancia, l’informatizzatissimo Branko ci parla di delicatezza di salute.
Semmai dovessimo sentirci poco bene, speriamo non sia Lupus (ma comunque non è mai Lupus,
tranquilli).
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